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Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Il ferro è un elemento importante essenziale per la vita perché è coinvolto in moltissimi processi biochimici come la formazione dell’emoglobina e dei citocromi; la sideremia rappresenta la quantità di ferro di trasporto nel sangue.

Per sapere qual è la quantità di ferro presente nel sangue è necessario conoscere i valori della sideremia che, per l’appunto, è misurazione della quantità di ferro presente nel plasma legato alla transferrina, la quale è invece la proteina che trasporta il ferro nell’organismo e per questo chiamata anche “ferro circolante”.

Sideremia, cos'è e cosa fare se è alta o bassa
Sideremia, cos’è e cosa fare se è alta o bassa

Proprio la sideremia misura questa quantità di ferro circolante, cioè di quello che viene assorbito dal fegato e dall’intestino, in particolare nel duodeno e viene trasportato ai tessuti dell’organismo che ne hanno bisogno.

Naturalmente, la sola misurazione della sidermia non è sufficiente a stabilire lo stato di salute di una persona. Per avere un quadro più completo è necessario infatti eseguire un’analisi del metabolismo del ferro, che comprenda la quantità di transferrina e la ferritina.

La misurazione della sideremia serve a rilevare eventuali forme di anemia, dati da confrontare con altre analisi. I valori sono espressi in microgrammo per decilitro (mcg/dl): 75/150 per gli uomini; 60/140 per le donne. Tali valori però possono variare, oltre che in base al sesso, anche all’età, allo stato di salute generale della persona, allo stile di vita e dunque all’attività che svolge.

La sideremia può quindi rientrare nella norma ma naturalmente può anche assumere dei valori alti o bassi. Un valore alto di sideremia può essere generato da una forma di anemia causata da un’epatite virale acuta, da malattie genetiche come la talassemia e dall’eccessiva presenza di ferro nel sangue in seguito a terapie, trasfusioni e stili alimentari sbilanciati. Una sideremia alta può essere causata anche da avvelenamento da piombo.

La sideremia bassa invece, può dipendere da un carente apporto di ferro nella dieta, un cattivo assorbimento del ferro a livello intestinale dovuto alla celiachia, al malassorbimento o altre patologie intestinali e a perdite o cali di ferro nell’organismo dovuti a condizioni fisiologiche come la gravidanza o le mestruazioni o patologiche come le emorragie.

Diabete, 1 malato su 2 vive in città

Diabete, 1 malato su 2 vive in città

Viene definito anche come diabete urbano, perché 1 malato su 2 vive in città. Per la prevenzione diventano determinanti gli stili di vita, è quanto affermano gli esperti

La nuova epidemia si chiama diabete urbano e affligge le città italiane. Nelle metropoli infatti v’è una maggiore concentrazione di persone malate di diabete, è quanto emerso dal 27/mo Congresso della Società italiana di diabetologia (Sid).

diabete
diabete

L’allarmante situazione nasce da una ricerca che pone la problematica sugli stili di vita delle persone. Proprio ai cittadini si rivolgono gli esperti esortandoli a cambiare le abitudini quotidiane.

I diabetologi, riunitisi a congresso, hanno lanciato un appello chiedendo di condurre una vita più sana e soprattutto sollecitandoli a muoversi maggiormente a piedi o in bicicletta a discapito di mezzi di trasporto meno salutari da questo punto di vista.

Sono queste le prime armi che aiuterebbero a prevenire questa patologia. «Il problema del diabete urbano è un problema globale. L’International Diabetes Federation prevede che nel 2045 i tre quarti della popolazione diabetica vivranno nelle metropoli o in città. Inoltre, si sta assistendo ad un incremento dell’obesità in coloro che vivono in aree urbane» – afferma il presidente Sid Giorgio Sesti.

E’ necessario dunque diffondere fra gli italiani una maggiore consapevolezza dei rischi legati al diabete, per tale motivo afferma Sesti che «Proprio per sensibilizzare le istituzioni ed i cittadini – afferma Sesti – la Società ha aderito al progetto Cities Changing Diabetes, allo scopo di promuovere stili di vita virtuosi».

PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

La proteina C reattiva (PCR) è una proteina prodotta dal fegato e dagli adipociti (le cellule del tessuto adiposo), il suo aumento ematico è sintomo di infiammazione in corso nell’organismo

La proteina C reattiva (PCR) è un’alfaglobulina, fa parte della famiglia delle proteine, viene attivata proprio da un’infiammazione o da un trauma fisico.

PCR, proteina C reattiva: cos'è e qual è la sua funzione
Analisi del sangue – PCR, proteina C reattiva: cos’è e qual è la sua funzione

Il valore della PCR è però aspecifico, ovvero si tratta di un ottimo indicatore in base al quale si decide di indagare la situazione clinica con esami ematici più specifici ma non indica il sito preciso dell’infiammazione (flogosi).

Maggiore sarà lo stato infiammatorio e più sarà alta la quantità di proteina C reattiva sintetizzata che invece per mantenersi nei valori accettabili, deve essere inferiore a 8 mg/l di sangue.

L’attivazione di questa proteina può derivare da diverse patologie, come: reumatismi; infezioni batteriche o virali (come polmonite, cistite, otite, vaginite e così via); infarto miocardico; operazioni chirurgiche e traumi; morbo di Crohn; patologie autoimmuni; ascessi; addominali; peritonite; tumori.

In ogni caso, quando c’è un’infiammazione in corso nell’organismo, il valore della proteina C reattiva aumenta e diventa dosabile in laboratorio.

Il medico prescrive il dosaggio della PCR nei casi in cui si desidera: valutare l’evolversi del processo infiammatorio; stabilire l’efficacia di una terapia antinfiammatoria; verificare il processo di guarigione di ferite chirurgiche, ustioni o simili; valutare il rischio dello sviluppo di coronaropatie.

Come detto, si tratta di un marcatore generale dell’infiammazione. Il suo valore servirà poi per prescrivere ulteriori indagini diagnostiche specifiche per il singolo caso.

Clinical Control – Corso Italia, 154 – CAP 87046, Taverna di Montalto Uffugo (Cosenza).

Un test delle urine, per sapere quanto velocemente stiamo invecchiando

Un test delle urine, per sapere quanto velocemente stiamo invecchiando

Per sapere quanto sta invecchiando il nostro corpo, basta fare un test delle urine. Non è una provocazione scientifica priva di fondamento, ma uno studio approfondito pubblicato su Frontiers.

Test delle Urine
Test delle Urine

Tutti conosciamo la nostra età cronologica, ma i nostri corpi invecchiano a velocità diverse. Quindi, più che aspettarsi di invecchiare e morire perchè si ha una certa età, sarebbe più logico conoscere prima lo stato di invecchiamento del proprio corpo, che potrebbe essere paradossalmente basso a 50 anni, e alto a 30.

Molto dipende dall’ambiente in cui viviamo, dal nostro stile di vita, o dalla genetica. Sapere quanto velocemente stiamo invecchiando significherebbe poter anche intervenire su uno di questi tre fattori, per invertire la tendenza. Ma come scoprirlo?

Grazie ai sottoprodotti dell’ossigeno, che col tempo procurano danni ossidativi a DNA e RNA. I marcatori di questo processo si chiamano 8-oxoGsn, e aumentano con l’età. Studiare il livello di 8-oxoGsn nelle urine, significa conoscere la percentuale del danno ossidativo nel nostro corpo: tanto più 8-oxoGsn viene riscontrato, tanto più siamo invecchiati.

La ricerca ha coinvolto 1228 persone residenti in Cina, ma era partita da studi che già tentavano di dimostrare la connessione tra invecchiamento e danni ossidativi negli animali. Conoscere il proprio stato di invecchiamento attraverso un semplice test delle urine, oggi potrebbe segnalare importanti segnali che un’inversione di tendenza nel proprio stile di vita, è necessaria.

Setticemia: con il test rapido basta una goccia di sangue per diagnosticarla

Setticemia: con il test rapido basta una goccia di sangue per diagnosticarla

Daniel Irimia, dalle pagine della rivista Nature Biomedical Engineering, annuncia che sarà possibile diagnosticare la setticemia a partire da una semplice analisi del sangue, con una percentuale di successo del 95%.

Il ricercatore del Massachusetts General Hospital di Boston abbatte quindi la possibilità di errore, che allo stato attuale delle cose, si aggira intorno al 30%.

Test per Setticemia
Test per Setticemia

Le analisi odierne restituiscono risultati incerti, procurando ai pazienti un immotivato uso di antibiotici, o nel caso contrario, negligenze mortali.

Su 42 individui, il metodo Irimia ha fallito solo due volte. Quaranta, invece, le diagnosi esatte. Con le analisi del sangue disponibili oggi, gli errori sarebbero stati non due, ma dodici.

Questi straordinari risultati si basano su un piccolo labirinto: vi si lascia colare una goccia di sangue, che comincia a distribuirsi attraverso i microscopici canali del labirinto.

A seconda di come si muovono i neutrofili, un software è in grado di comprendere se quel sangue appartiene ad un paziente affetto da sepsi o meno. Daniel Irimia sembra aver trovato il modo per diagnosticare con maggiore sicurezza una malattia in moltissimi casi mortale.

La sperimentazione del suo metodo su un campione di volontari più alto, potrebbe voler dire molto, per la medicina e per le chances di sopravvivenza di chi viene colpito dalla setticemia.

Antibiotico-resistenza, situazione allarmante in Italia

Antibiotico-resistenza, situazione allarmante in Italia

Antibiotico-resistenza, in Europa si contano 4 milioni di infezioni da germi e 37 mila morti, con l’Italia che precede solo la Grecia in questa triste classifica

L’Oms prevede che nel 2050 i decessi per antibiotico-resistenza saranno 10 milioni l’anno. E in Italia sale la preoccupazione nella comunità scientifica, tanto che è stato prodotto un primo Decalogo per il corretto uso degli antibiotici, presentato la scorsa settimana al Ministero della Salute, un documento redatto dal Gisa, Gruppo italiano per la stewardship antimicrobica.

Antibiotico-resistenza, in Europa si contano 4 milioni di infezioni da germi e 37 mila morti, con l'Italia che precede solo la Grecia in questa triste classifica
Antibiotico-resistenza, in Europa si contano 4 milioni di infezioni da germi e 37 mila morti, con l’Italia che precede solo la Grecia in questa triste classifica

Preoccupa molto, in particolare, la situazione negli ospedali italiani dove si registrano ogni anno 300mila casi di infezioni da germi antibiotico-resistenti che portano a un numero di decesso di pazienti, fra i 4500 e 7mila.

Ma le stime dell’Oms vanno oltre: nel 2050, le morti provocate da germi multi-resistenti potrebbero arrivare a 10 milioni.

Un numero enorme che supera quello dei decessi per tumore e che quindi induce ai soggetti responsabili una riflessione importante onde intervenire per tempo.

Altro grave problema è la mancanza di nuovi antibiotici dovuta alla poca ricerca ed inoltre la situazione sta diventando molto pesante negli ospedali e specie nelle terapie intensive. “Basterebbe lavarsi le mani passando da un paziente all’altro” – ha dichiarato Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Iss.

“La realtà epidemiologica impone di ridurre l’uso inappropriato di antibiotici, sia nelle persone che negli animali, il miglioramento della diagnostica microbiologica e le prescrizioni inutili o fai da te”, dice presidente del Gisa che indica anche una delle cause della situazione italiana nel “calo del livello di protezione immunitaria, le vaccinazioni”.

Necessario quindi un approccio diverso, come quello dello One health, che considera interconnesse la tutela della salute umana, quella animale e ambientale e vi è il bisogno di una governance per il controllo delle infezioni. “Purtroppo in alcuni Paesi – hanno spiegato gli esperti – gli antibiotici vengono usati anche per accelerare la crescita degli animali. Nell’Ue la legislazione è restrittiva, ma non è così dappertutto”.

All’incontro al Ministero della Salute, hanno partecipato anche rappresentanti dell’Ocse, dell’Ecdc e della Fao che hanno anticipato la promozione di azioni globali.

Celiachia, aumentano i malati: nel 2016 oltre 15mila diagnosi

Celiachia, aumentano i malati: nel 2016 oltre 15mila diagnosi

Sono quasi 200mila i malati di celichia in Italia ma il dato preoccupante è che si stimano oltre 400mila persone che non sanno di essere malate

La relazione sulla celichia in Italia presentata al Parlamento nei mesi scorsi dipinge un quadro allarmante sulle diagnosi di celiachia nel nostro Paese e soprattutto sulle stime. Nel 2016 infatti, si sono aggiunti 15.569 celiaci, raggiungendo quindi la soglia dei 200mila, per la precisione 198.427. Di questi, due terzi terzo appartiene alla popolazione femminile e la quota rimanente a quella maschile.

celiachia
celiachia

Il dato ancor più preoccupante è quello inerente agli italiani celiaci che però non sanno di esserlo. Si stimano infatti 408mila persone malate di celiachia non ancora diagnosticate.

La regione che presenta il maggior numero di celiaci è la Lombardia con +5.499 diagnosi (regione che conta 37.907 celiaci residenti), seguita dal Lazio con +1.548 diagnosi (19.325 celiaci residenti) e dall’Emilia Romagna con +1.217 (18.720 celiaci residenti).

Il documento presentato in Parlamento sottolinea che “emerge un incremento delle diagnosi più spinto, forse favorito dalla maggiore sensibilizzazione dei cittadini ma anche dai nuovi indirizzi scientifici”. L’incremento si intende ad un anno dall’entrata in vigore del nuovo protocollo diagnostico, confrontato con i dati del triennio precedente 2014-2016.

La celichia è stata classificata ormai come patologia cronica, che si sviluppa in tutti quei soggetti che sono predisposti geneticamente e colpisce, al momento l’1% della popolazione italiana. Le persone affette da celichia, come risaputo, devono escludere dalla propria dieta il glutine.

Una situazione che impone un approccio più deciso delle istituzioni. La Relazione presentata in Parlamento, evidenzia la necessità di “dare piena applicazione al Protocollo diagnostico individuando sul territorio i presidi del Servizio sanitario nazionale per la diagnosi della celiachia ai fini delle esenzioni, dando così le stesse opportunità diagnostiche ai cittadini”.

La stima di 400mila celiaci non diagnosticati impone inoltre una priorità assoluta cioé l’adozione di unico protocollo per l’intero territorio nazionale, auspicato anche da Giuseppe di Fabio, presidente dell’Associazione italiana celiachia (Aic), ma anche la consapevolezza che la celiachia “è ancora una malattia in gran parte ‘sommersa’ e da scoprire e la sfida maggiore per il 2018 è proprio garantire l’applicazione del nuovo protocollo per la diagnosi su tutto il territorio nazionale, considerando che si stima che siano oltre 400mila gli italiani celiaci non ancora diagnosticati”, come sottolineato Caterina Pilo, direttore generale di Aic.

“In Italia attendiamo 600mila casi di celiachia, considerando che la prevalenza della malattia è dell’1% sulla popolazione, ma siamo ancora intorno a un terzo delle diagnosi fatte” – ha detto il direttore generale di Aic commentando i dati della relazione.

“Le diagnosi – spiega Pilo – crescono grazie alle nuove tecniche e la maggiore sensibilizzazione delle persone, ma bisogna lavorare ancora molto. Innanzitutto applicando su tutto il territorio il nuovo protocollo per la diagnosi approntato dal ministero e che non è applicato ovunque”.

Sulla questione dei costi dei prodotti alimentari per celiaci e sui tetti di spesa garantiti per le esenzioni “sono al momento in revisione e all’esame della conferenza Stato-regioni. Si va nella direzione di una loro riduzione perche ci sarà un adeguamento ai nuovi prezzi dei prodotti alimentari per celiaci, che sono calati. Ci aspettiamo che sia un adeguamento contenuto” – ha detto Pilo.

In Europa, colpite da malnutrizione ben 33 milioni di persone

In Europa, colpite da malnutrizione ben 33 milioni di persone

Pubblicate le linee di indirizzo dal Ministero della Salute per il trattamento delle persone colpite da malnutrizione già malate di patologie croniche e oncologiche; in Europa il problema è vissuto da 33 milioni di pazienti.

Una “malattia nella malattia”, così viene definita la malnutrizione per i pazienti già colpiti da patologie croniche e oncologiche. Un problema poco percepito seppure riguarda ben 33 milioni di persone in Europa a fronte del quale necessitano 120 miliardi di euro per affrontarla. E’ un costo sociale elevato ed anche per questo, il Ministero della Salute, attraverso un Accordo Stato-Regioni, ha approvato a dicembre scorso le “Linee di indirizzo sui percorsi nutrizionali nei pazienti oncologici”.

In Europa, colpite da malnutrizione ben 33 milioni di persone
In Europa, colpite da malnutrizione ben 33 milioni di persone

Le linee di indirizzo sono state elaborate da un gruppo di lavoro multidisciplinare ed hanno l’obiettivo di ridurre le complicanze mediche derivanti dalla malnutrizione.

Inoltre hanno il compito di facilitare il recupero dello stato nutrizionale e della salute fisica, due obiettivi fondamentali per raggiungere la guarigione del paziente oncologico.

“La consapevolezza della prevalenza e delle conseguenze negative della malnutrizione nel malato oncologico è ancora molto scarsa sia tra gli operatori sanitari sia tra i pazienti” – è quanto si legge sul sito del ministero.

“Si osserva -prosegue il ministero- una prevalenza della malnutrizione compresa tra il 25% e il 70% in diversi Paesi europei ed extra-UE”. Un problema dunque, che viene vissuto in maniera disuniforme a seconda del contesto sanitario e degli strumenti utilizzati per valutare.

I pazienti oncologici risultano essere quelli più colpiti e, “tra i pazienti neoplastici che perdono peso corporeo, il 20-30% muore per le conseguenze della malnutrizione”.

Le linee di indirizzo hanno dunque tre obiettivi da conseguire: definire i bisogni specifici dei pazienti in ambito nutrizionale; un percorso integrato finalizzato a un programma nutrizionale personalizzato e associato al trattamento oncologico sin dal primo accesso ai servizi; formazione ed informazione agli operatori sanitari.